Mi sono ritrovato in India quasi per caso, al seguito di chi ne conosceva la storia di ieri, la realtà di oggi e, attraverso lo yoga, anche i suoi sedimenti spirituali e culturali più fecondi e spesso anche reconditi. Dico “quasi” perché in realtà c’era in me una grande curiosità di toccare con mano e verificare sul campo quanto mi era stato consigliato di leggere, e di soppesare con la bilancia del pragmatismo quanto mi era stato raccontato. Il risultato è stato un incredibile affastellamento di sensazioni, emozioni e percezioni profonde che hanno contribuito a squarciare il velo di maya che il più delle volte nasconde a noi europei l’anima vera dell’India.
Questa anima trova la sua sede naturale nella madre Ganga: il sacro fiume Gange che viene catapultato a valle dagli anfratti nevosi dell’Himalaya e diventa, pur nella sua tumultuosità, un corso d’acqua gentile proprio a Rishikesh, dove si concludono le verdi pendici della catena montuosa più alta del mondo.
Per gli indiani (e non solo), il Gange non è solo un fiume, è l’inizio e la fine di tutto, è la sorgente della vita ammantata da mille leggende. Se hai l’occasione di assistere sul Gange agli incredibili tramonti che rubano i colori arancio e porpora alle tonache dei sadhu e dei bambini degli ashram, avvolto dalle sonorità dei canti e dei mantra, se hai l’opportunità di seguire con lo sguardo le fiammelle delle barchette votive che riescono a evitare le pietre affioranti sull’acqua vicino alle rive e a sgusciare verso il centro soavemente baldanzoso del fiume, mille e mille sensazioni si affollano nella mente.
Pensi in primo luogo alle dignità plurimillenaria di questi riti che, insieme alle barchette, rendono inaffondabili queste tradizioni, pensi al possente richiamo della “foresta umana”, all’inviolabilità di questi luoghi pur accessibili oggi a pellegrini, turisti e aspiranti sadhu o swami occidentali.
Credo che sia rimasto uno dei pochi luoghi che ha mantenuto la sua unicità magica dai tempi dei tempi. Sembra che la vita si sia fermata all’attimo dello scroscio delle acque del fiume dai capelli di Shiva… poi ci accorgiamo che accanto a questa vita apparentemente immutabile scorre anche l’altra vita, la vita quotidiana – una accanto all’altra, allo stesso tempo maestosa (quella) e terrena (questa).
Se poi ti capita di incontrare una famigliola bengalese – padre, madre e cinque figli – giunta a Rishikesh per le celebrazioni del Kumbha Mela di Haridwar, e intenta a rientrare delle povere spese di viaggio offrendo ai turisti le succitate barchette di petali di fiori con quadretti di canfora e bastoncini d’incenso comprati all’ingrosso, l’anima indiana ti si svela ancora più a fondo. Rinkyoo, il secondogenito di nove anni che frequenta la quarta elementare e mastica un po’ d’inglese, è il più attivo e scattante dei fratelli, con un sorriso disarmante. Se entri in sintonia con lui, strappa da un quadernino tutto accartocciato i suoi disegni colorati e te li dona non per soldi, ma per cementare un’amicizia e approcciarsi ad altri mondi. È felice di accenderti la fiammella delle barchette, affinché i tuoi desideri si esaudiscano, e magari anche qualcuno dei suoi. Come il suo fratellino incollato allo sgabello del suo banchetto, che alle domande degli stranieri risponde invariabilmente «okay» oppure «yes» con un sorriso aperto e genuino.
Se penso ai nostri bambini che non hanno bisogno di niente perché hanno già tutto, con stanze stracolme di giocattoli abbandonati dopo la prima settimana di possesso, che hanno guardaroba traboccanti di robe griffate, e ai quali si chiede solo di «studiare ed essere bravi», ti viene voglia di capovolgere il mondo con i nostri bambini e i bambini indiani che si scambiano i ruoli: oplà! A loro un po’ di agio, ai nostri un assaggio di vita agra, appena un assaggio… Ma è pura utopia: in un mondo come quello odierno, dove l’unica divinità è il denaro (non più il dollaro, come una volta), il precario equilibrio è consentito proprio da questa dicotomia – ricchi da una parte, miserabili dall’altra. Ricchi poi… mica tanto! Forse sì se intendiamo il reddito, ma la ricchezza fa poi rima con reddito? No, non sempre, anzi quasi mai. Né la miseria fa rima con abiezione e disperazione.
I bambini indiani ridono e sorridono, fraternizzano, non hanno paure, sono cresciuti in fretta e non si spaventano, ti donano serenamente la loro semplicità. E questa non è ricchezza? Quanti dei nostri bambini possono vantare tutto questo? Spesso temono ogni cosa, anche le ombre e non solo gli orchi delle favole, temono soprattutto di perdere o non poter più disporre di ciò che considerano acquisito una volta per tutte, hanno paura spesso di fare uno sforzo in più rispetto ai loro coetanei.
Rinkyoo e il Gange: il mito si rinnova e continua attraverso il fluire del sacro fiume, lungo il cui snodarsi vivono tanti piccoli Krishna come Rinkyoo e i suoi fratelli che non si spaventano al contatto con gli stranieri, cui dispensano sorrisi. Ma non sono sorrisi forzati, indotti dalla speranza di una ricompensa monetaria, sono invece la spia di una gioia interiore contagiosa e festante.
Questi sono i baby-Krishna dell’India, il futuro – ci auguriamo – felice e generoso di questo straordinario Paese.
L’India cambia coloro che vengono a contatto con lei.
Ti cambia perché non è un Paese come un altro, o come io e tanti altri abbiamo visitato negli altri continenti. Ogni Paese che visiti ti lascia il più delle volte bellissimi ricordi, come foto da rivedere e ricordare. L’India, invece, ti lascia un vuoto dell’anima che ti invita a riempire di contenuti profondi, ti lascia un imprinting doc, un copyright d’autore, come quei film-cult che ricordi per tutta la vita anche se li hai visti una sola volta.
L’India di Rishikesh trasforma la persona: se questa è incompleta, la completa; se si sente svuotata, le indica la strada da percorrere per riempire il vuoto; se è una persona giunta a un buon punto del proprio cammino, le fa capire che per realizzarsi compiutamente ha bisogno di un altro sforzo, forse non grande ma qualitativamente diverso.
L’India è come il postino che ti recapita una lettera con l’indirizzo giusto cui rivolgerti, è come la guida che ti porta alle soglie del Taj Mahal e ti dice «va’ e scopri da solo il tesoro che c’è in te», è come la giara di Krishna, dove sai già che immergendovi il braccio troverai panna e miele e non un intreccio di serpenti velenosi.
Noi e l’India. Noi, simili a una umanità spremuta fin nei suoi minuscoli semi, e l’India simile a un frutto accattivante che ti rapisce per i suoi colori e fragranze.
In questo senso l’India potrebbe essere il Paese che riabilita l’uomo dal peccato originale: il pomo avvelenato di Eva potrebbe diventare un frutto paradisiaco che stilla nettare divino.
L’India che ormai porto con me è l’immagine di una gigantesca sorgente d’energia, capace di far schiudere e riarmonizzare il cuore dell’uomo.
Realizzando questa nuova e felice condizione di “apertura del cuore”, ognuno di noi sarà finalmente in grado di recepire il più sublime ed essenziale degli insegnamenti di Swami Sivananda, scolpito nel marmo del suo ashram: «Be good. Do good».
Così semplice… così perfetto.

Carlo Fredduzzi – 21/03/2010